“One for the road”: incontro con Massimo Baraldi

“One for the Road” è il titolo del romanzo di Massimo Baraldi, giovane scrittore e traduttore modenese residente ad Olgiate Comasco. Si tratta di un’opera di notevole interesse stilistico strutturata in forma di monologo, in cui un protagonista senza nome estrinseca il proprio straniamento rispetto ad una realtà che non condivide. «Abbiamo bisogno di simili nuove voci che possano sfidare il vuoto e mostrarci il modo per cadere all’insù» scrive il poeta statunitense Jack Hirschman, amico ed estimatore di Baraldi, nella prefazione da lui stesso curata. Abbiamo interrogato l’autore sul significato della sua opera e sul valore che per lui riveste la scrittura.

GB: Come è nata la tua vocazione letteraria e quali esperienze hai avuto prima di One for the road?
MB: Più che una vocazione considero lo scrivere una sorta di urgenza interiore, un bisogno. Ho cominciato per gioco e poi è diventata un’abitudine! Da allora ho tradotto dal russo l’opera di Vladimir Majakovskij “Per la voce”: l’edizione, pubblicata da Ignazio Maria Gallino Editore è stata insignita del Premio Fedrigoni quale miglior prodotto dell’editoria di pregio per l’anno 2003. Oltre a questo ho pubblicato racconti, alcuni dei quali insigniti di riconoscimenti a livello nazionale e ho fatto diverse esperienze di opere “ibride” create con fotografi, scultori, musicisti e attori. Mi piace l’idea che forme di espressione artistica possano non solo convivere ma anche arricchirsi vicendevolmente.

GB: Come sei giunto alla scelta del monologo come genere per la tua opera?
MB: L’idea di base era quella di provare a liberare le parole dalle costrizioni derivanti dal rigore di una struttura narrativa convenzionale, con lo scopo di restituir loro corpo, immediatezza: mi sono orientato verso un qualcosa che mi consentisse di creare un dialogo diretto con chiunque decida di accostarsi a “One for the Road”. Anche la scelta di non utilizzare maiuscole ed inserire la punteggiatura secondo schemi ritmici e non grammaticali tende a questo fine. Abbiamo quindi un monologo sino a quando il libro è chiuso, basta sfogliarlo per ottenere un dialogo… autistico, forse, ma pur sempre un dialogo!

GB: Il protagonista di One for the road si rivela al lettore nel corso del monologo. Lo spaccone dei primi capitoli lascia a poco a poco trapelare un’insospettata sensibilità e una tormentata inquietudine interiore. Quando hai iniziato a scrivere il romanzo avevi già ben chiara la sua personalità o l’hai costruita progressivamente?
MB: Molti dei personaggi presenti in letteratura hanno una sorta di alone mitico intorno a sé: fanno ciò che fanno e sono come sono, in eterno, sospesi in un passato/futuro che non prevede mutazioni significative. Io ho preferito limitarmi a mettere il personaggio sulla carta e lasciarlo libero di costruirsela da solo, la propria personalità. Il suo ritratto si è delineato strada facendo, una pagina dopo l’altra… a tratti veleggia spavaldo in superficie, subito dopo si ripiega su se stesso e affonda. Diciamo che in lui convivono più voci, e che ogni tanto una strilla più forte delle altre.

GB: La malinconia e la profonda tristezza del protagonista apparentemente sembrano determinate dall’assenza di Silver, una donna di cui è innamorato. Chi è veramente Silver?
MB: Silver… Silver non esiste, né può esistere. Silver è un personaggio dei fumetti, il cavallo del Cavaliere Solitario: in sella a Silver l’eroe della prateria non conosce la paura e si lancia al galoppo verso ogni sorta di pericoli, senza di lui non è niente. Non saprei dire chi è davvero Silver… forse il sogno con cui ciascuno decide di rendere sensato il proprio vivere.

GB: La solitudine ed inquietudine del protagonista possono essere interpretate come emblema dell’insoddisfazione del genere umano. Da che cosa è determinato questo “male di vivere”?
MB: Non sono certo che si tratti di un vero e proprio “male di vivere”, o quantomeno non penso alla cosa esattamente in questi termini. Quello che ci circonda è un mondo costruito a nostra immagine e somiglianza che nel tempo è divenuto un’entità a sé stante, talmente complessa da sfuggire a ogni controllo: non sempre è facile adeguarvisi. Se non ci piace siamo però liberi di reinventarcelo, o di credere di poterlo fare. Direi quindi che il protagonista è una sorta di Don Chisciotte moderno che decide di seguire la propria strada incurante di dove potrà condurlo, e non ha né un nome né un volto perché potrebbe essere chiunque almeno una volta nella vita abbia provato la sensazione che la realtà gli vada un po’ corta di maniche. Solitudine ed inquietudine non sono che l’attrito che viene a formarsi dal contatto tra il mondo interiore e quello esteriore.

GB: Il linguaggio è componente fondamentale del tuo libro. L’utilizzo di registri e stili molto diversi accompagna infatti l’evoluzione del personaggio. Come è nata questa scelta?
MB: Questa è stata una scelta obbligata, perché una volta inserito il protagonista all’interno della struttura narrativa volevo che il suo essere fuori tempo e fuori luogo divenisse una costante del percorso che lo attendeva: l’alternanza di registri e stili serve ad enfatizzare questo effetto.

GB: Spesso il tuo stile si avvicina alla poesia e alla musica. Quali influenze hanno avuto queste due forme espressive nella tua opera?
MB: Sono affascinato dal potere visionario della poesia, dal suo saper raccontare storie che non sono storie, dalla sua capacità di penetrare l’animo umano e di divenirne lo specchio e la bandiera. Non sono un appassionato di poesia in senso stretto, ma ci sono poeti che amo profondamente. Dylan Thomas, tanto per citarne uno.
Céline pensava alle sue pagine come ad una piccola musica… la parola è suono, ed il suono è musica. L’influenza della musica è fondamentale nel mio lavoro: non so scrivere nel silenzio e per quanto mi è possibile cerco di andare a tempo… chissà, se fossi capace di suonare probabilmente non mi sarebbe mai venuto in mente di scrivere!

Altre notizie sull’autore possono essere attinte dal sito www.massimobaraldi.it.

Olgiate Comasco, 30 gennaio 2006 © Giuliana Bordin

[Da “Dialogo” n°5, edizione marzo/aprile 2006]