Quando il romanzo vive fra sogno e realtà: l’autore di «One for the road» si racconta

Un romanzo, «One for the road. Soliloquio da bancone in 19 giri e un brindisi», il cui titolo si rifà a una tradizione inglese che accompagnava i condannati a morte. L’introduzione di Jack Hirschman, uno dei più celebri poeti viventi. La commistione con l’arte nella prima edizione del libro, realizzato in tiratura limitata prima di passare a Il foglio clandestino, aderendo alla campagna «Scrittori per le foreste», che prevede l’utilizzo solo di carta riciclata senza cloro. L’incontro tra Massimo Baraldi e Jack Hirschman passa attraverso la traduzione dal russo di «Per la voce» di Vladimir Majakovskij, e da un incontro del tutto fortuito. «Un’opera – spiega Baraldi – pubblicata da Ignazio Maria Gallino, fedele riproduzione dell’originale, che si aggiudicò il premio Fedrigoni quale miglior prodotto dell’editoria di pregio del 2002. Graficamente parlando, si tratta di un piccolo gioiello. Hirschman ne rimase tanto colpito da decidere di interessarsi al mio lavoro. Direi che è stata la più bella gratificazione che potessi aspettarmi, stiamo parlando di uno dei più importanti poeti contemporanei».

LO SPUNTO iniziale del libro, che narra di una serrata caccia all’uomo in un’atmosfera tra il sogno e la realtà, è molto particolare, e parte dal titolo: il brindisi tradizionale che veniva offerto al condannato a morte lungo la sua strada.

PP: È nata prima l’idea di voler costruire qualcosa attorno a questa espressione, o è successo il contrario?

MB: «Sono partito dal brindisi finale, per poi guardarmi intorno e tornare sui miei passi. Mi affascinava l’idea di un saluto alla strada e della propria storia barattata per un posto in cielo. Lungo il tragitto, tradizionalmente, gli uomini del Signore raccoglievano infatti le confessioni dei condannati per rivenderle alla folla di curiosi festanti. Il libro si è costruito da solo, un giro dopo l’altro. Immagino non potesse andare altrimenti».

PP: Anche stilisticamente la sua scrittura è fortemente caratterizzata in una serie di aspetti molto personali, per esempio l’assenza di lettere maiuscole, che crea un impatto diretto con chi legge. Ci vuole spiegare?

MB: «Alcuni libri non parlano a nessuno in particolare, io ne volevo uno capace di instaurare un rapporto personale con chiunque cominciasse a sfogliarlo e avesse la pazienza di starlo a sentire. Abbiamo un protagonista che, oltre a essere privo di un nome, non ha nemmeno un volto, per di più collocato all’interno di un mondo impossibile. Ho utilizzato ogni espediente per far sì che la sua voce divenisse quella del lettore».

PP: La musica, che ha un ruolo protagonista nella sua vita di critico e intervistatore, come è entrata nel libro?

MB: «Se la parola è suono, la scrittura è musica e il resto è solo questione di ritmo. Come il respiro. La colonna sonora è scarna, suonata con pochi strumenti, perlopiù acustici e a buon mercato. Parte dal blues rurale di Lightnin’ Hopkins, ma anche il jazz di John Coltrane e Thelonious Monk trovano il proprio spazio. Prosa e poesia, oggi, si sono allontanate dalla quotidianità delle persone e si sono chiuse in un mondo tutto loro. Lo stesso non si può dire della musica, che mantiene la capacità di raccontare storie che ognuno può sentir proprie. E, a volte, non ha nemmeno bisogno di usare le parole per riuscirci».


PP: Qual è il punto di riferimento narrativo?

MB: «Sono stato influenzato in ugual misura dall’immaginario americano e da quello della Bassa Modenese, la mia terra d’origine. Amo le storie che un tempo circolavano nelle osterie e nelle stalle nostrane, e credo non si discostino molto da quelle si ritrovano nei bayou della Louisiana. La mia scrittura è il risultato di tutto ciò che amo, come di ciò che detesto. L’umanità di John Steinbeck, la prosa jazzata di Jack Kerouac, quella grand-guignolesca di Louis-Ferdinand Céline, le lucide visioni di Pasolini, il senso dell’umorismo di Andrea Pazienza… una volta stabilito un contatto, non ti lasciano più».

PP: La prima edizione di “One for the road” fu realizzata in cento copie illustrate da Enzo Santambrogio, le cui incisioni sono state poi replicate nell’edizione successiva. Da cosa nasce questa commistione con l’arte?

MB: «Suoni, segni, parole, immagini, non sono che ciò che sono. Possono vivere vite distinte all’interno dei propri limiti, oppure fondersi e creare una sorta di microscopico universo in costante evoluzione. Le contaminazioni prevedono un confronto e proprio per questo offrono stimoli creativi inaspettati: un lavoro dovrebbe essere un punto di partenza, non di arrivo, per come la vedo io. Il contributo di Enzo è ora parte integrante di «One for the road», non saprei immaginarlo senza. E lo stesso vale per la copertina di Enrico Cazzaniga. Ha saputo condensare la storia in un dipinto, togliendo i colori invece di metterli».

© Paola Pioppi [Da “IL GIORNO” del 04 gennaio 2009]